“Il mio mestiere è costruire secondo natura”

Parla Francis Kéré, primo africano a vincere il Pritzker Prize grazie ai suoi progetti di architettura sostenibile e a misura di ambiente “Il modello occidentale è sopravvalutato. È ora di decolonizzarci”

 

La Repubblica

 

Dimenticate le archistar, i grattacieli scintillanti di vetri e metalli, tutti quegli edifici che gridano “io, io, io”. In questi tempi incerti e minacciosi, il Nobel dell’architettura, ossia il Pritzker Prize assegnato nei giorni scorsi, dà un segnale diverso e per alcuni versi opposto. A ricevere il riconoscimento, vinto in passato da grandi nomi come Jean Nouvel, Zaha Hadid, Frank Gehry, è stato quest’anno per la prima volta un architetto africano, Francis Kéré.
Kéré, 57 anni, usa un vocabolario diverso. Un vocabolario in cui la parola più frequente è comunità , intesa come riferimento costante di un lavoro d’architetto che, da un capo all’altro del mondo ma con le radici piantate nel continente in cui il designer è nato, guarda al pianeta, al risparmio delle risorse, alla gente comune per cui gli edifici vengono immaginati e costruiti. Lo raggiungiamo al telefono a Berlino, dove ha sede lo studio che porta il suo nome, fondato nel 2005 dopo che il primo progetto, la Gando Primary School costruita nel suo villaggio natale in Burkina Faso, vinse l’Aga Khan Award. Scherza, Kéré, dicendo qualche parola in italiano, chiedendo se vogliamo fare l’intervista in bissa , la sua lingua natale, e commentando il Pritzker Prize: «ha fatto arrivare la primavera con qualche giorno d’anticipo dalle mie parti, ma mette anche una certa pressione, ovviamente. Se ha letto le motivazioni del premio, avrà visto che citano ciò che è più importante per me: la qualità di vita delle persone a cui sono destinati i miei progetti. Intendo proseguire così».
Arrivato in Germania con una borsa di studio per frequentare una scuola per carpentieri, ha studiato di notte per essere ammesso alla Technische Universität di Berlino.
Il sapere pratico accumulato in quella giovinezza faticosa l’ha portato con sé. E l’ha trasformato nella capacità di concepire un’architettura adattiva, in termini di materiali, forme, colori: dal padiglione per la Serpentine di Londra a quelli per il festival di Coacella, negli Stati Uniti, dalle Léo Doctors’ Housing di Léo,in Burkina Faso, alle strutture per il National Park del Mali, i suoi progetti raccontano di un’arte del costruire che sa comprendere un mondo in trasformazione, senza farsi scoraggiare dalla difficoltà. Afrofuturismo è un termine molto usato nella cultura contemporanea, e lei stesso lo cita. Cosa rappresenta per lei come architetto e come designer? «Venendo dall’Africa, le domande che ricevi sono sempre le stesse: come si fa a lavorare in un posto così povero e instabile? Parlare di Afrofuturismo significa ribaltare la prospettiva: riconoscere all’Africa la sua mente creativa collettiva, la capacità delle persone di vivere pienamente l’esperienza umana.
C’è molto altro nel continente oltre a ciò su cui si focalizzano i media: c’è il potenziale di offrire nuove prospettive e valore al resto del mondo».
Pur essendosi formato in Germania, pur avendo uno studio a Berlino, le radici del suo lavoro restano in Africa
«Quello che ho voluto fare, fin dall’inizio, è riflettere sui materiali. Lavorare su ciò che le persone già conoscono, ovunque io mi trovi.
Usare la materia locale permette di recuperare il sapere della comunità e di non sprecare risorse. Se sono a Londra, o nel nord Europa, uso il legno per creare una struttura elegante e avanzata. Se sono in Africa, vedrò cosa trovo e deciderò. Non mi interessa ciò che è nuovo per il gusto di ciò che è nuovo. È un tipo di approccio costoso e spesso fallimentare».
Le falle si sono viste durante la pandemia: edifici ultramoderni le cui finestre non si aprono, senza ventilazione naturale e quindi improvvisamente “pericolosi”.
«Ciò dipende dal fatto che talvolta si perde lo scopo: si deve costruire per le persone perché una costruzione, è qualcosa che condiziona tutta la comunità: chi la utilizza, i vicini di casa, l’ambiente circostante, e questo resta al centro del pensiero architettonico. Ma al tempo stesso dobbiamo innovare, ispirare le persone».
Quella che lei propone è una nuova ecologia dell’architettura?
«Dobbiamo usare la tecnologia ma anche assicurarci che l’uomo che vive, lavora, percorre quella struttura architettonica non si ritrovi in una capsula chiusa rispetto al mondo esterno; l’uomo deve restare connesso agli elementi. Creare un palazzo in cui non si possono aprire le finestre a mio parere non è innovazione. La grande sfida di questo periodo pandemico in realtà è questa: non rinunciare agli edifici pubblici, ai luoghi dove le persone possono incontrarsi, ma riprogettarli in modo che possano farlo diversamente».
Quale dei suoi progetti riflette meglio questo paradigma?
«La scuola di Gando, che ha cambiato tutto per me. La prima difficoltà era che non avevamo i fondi, e così ho creato una fondazione che ancora esiste e che poi ha raccolto denaro per un centro sanitario; la scuola oggi ha duemila studenti ed è un presidio che serve innanzitutto per loro. La seconda sfida è che io presentai un progetto che prevedeva di utilizzare l’argilla . La reazione fu: ma come, vieni dalla Germania dove è tutto in cemento e qui vuoi costruire in argilla, che è roba da poveri? Poi, quando li ho convinti che il cemento non aveva senso, che potevamo usare il sapere locale per creare qualcosa di nuovo, hanno tutti lavorato con me. Il risultato li ha stupiti, ha cambiato il loro modo di pensare».
Sta dicendo che bisogna “decolonizzare” l’architettura?
«Sì. In Africa l’élite è focalizzata sull’Occidente, e considera ciò che arriva dall’Occidente la cosa migliore. Io invece credo che sia necessario diventare degli opportunisti della materia prima».
Il bambino che lei è stato poteva immaginare dove sarebbe
arrivato?
«Quel che sto per dirle forse è banale e non particolarmente romantico. Ho dovuto lasciare il mio villaggio e la mia famiglia quando avevo sette anni per poter avere un’educazione. Se ci penso ancora mi viene da piangere. Sono arrivato nella grande città. Sedevo in questa classe con un altro centinaio di studenti che non conoscevo. Nell’aula faceva un caldo terribile e c’era poca luce: il concetto dell’edificio era completamente sbagliato, inadatto alla funzione, inadatto al luogo in cui si trovava. Da bambino pensi: io farò le cose diversamente, le farò meglio. Pensi: da grande farò un lavoro che mi permetterà di costruire scuole migliori. E ne farò una in ogni vilaggio, così i bambini come me non dovranno andare via per avere un futuro».